Posts Tagged ‘Gad Lerner’
Teologia delle copertine
L’idea che non si possa giudicare un libro dalla copertina è una pericolosa eresia, da contrastare con tutte le armi dell’apologetica. Inclina per un verso al docetismo – l’esteriorità di un volume è degradata a mera apparenza, fantasma, come le spoglie mortali di Cristo – e per altro al nestorianesimo, postulando due nature distinte, la copertina e i fascicoli delle pagine, tenute accidentalmente assieme da una costola. E invece l’esterno e l’interno di un libro sono, per l’ortodossia, un’unica ipostasi. Forte delle conclusioni del mio privato concilio di Calcedonia, rivendico il diritto di giudicare il nuovo libro del teologo laico Vito Mancuso dalla copertina, dove su campo bianco un cuore stilizzato fa da apostrofo rosso tra le parole Io e amo. Sottotitolo: Piccola filosofia dell’amore. È un libro che si annuncia piccolo, obietterà qualcuno, non facevi prima a leggerlo? Lo so, ma volevo mettere alla prova un altro caposaldo della mia erigenda teologia della cultura, il dogma che postula l’infallibilità di Gad Lerner ex cathedra televisiva nel reclutare e magnificare le eminenze di quello che chiamerei il pensiero grigio, o stinto. Leggi il seguito di questo post »
Malinteso benessere
Basta analizzare una molecola d’acqua per capire di cosa, per lo più, sono fatti gli oceani. Lo stesso vale per le ideologie, solo che in questo caso l’unità minima non è composta da atomi di idrogeno e di ossigeno, bensì dall’aggregazione di un sostantivo e di un aggettivo. Qualche esempio? Liberismo selvaggio, pensiero unico, poteri forti, macelleria sociale. Sono molecole ideologiche che rivelano infallibilmente di che materia è composta la visione del mondo di chi le usa. Ce n’è un’altra che nessuno ha mai messo sotto il microscopio, e che ingrandita a dovere fa intravedere oceani di giudizi, pregiudizi, sottintesi, sentimenti e risentimenti: malinteso benessere. È comparsa, di recente, in una breve recensione di Gad Lerner al film di Paolo Virzì, Il capitale umano, che a suo dire interrogherebbe le nostre coscienze «sulle brutture che si accompagnano alla ricerca di un malinteso benessere». Ma la formula ha origini più lontane, e la si ritrova per esempio in una lettera di Giovanni Paolo II ai rappresentanti del Movimento per la vita, dove il diritto all’aborto era ricondotto al «desiderio di un malinteso benessere». Passiamola dunque al microscopio. Molte cose possono generare malintesi: un motto di spirito, una filosofia, il senso di una frase, un’intercettazione. Ma che si possa malintendere il benessere e la ricerca della felicità, questo sì è un concetto schiettamente clericale. Malinteso vale qui come sinonimo di un aggettivo assai caro alla teologia morale: disordinato (che presuppone un ordine morale a cui dobbiamo adeguarci, e dal quale possiamo tralignare perché per primi non sappiamo che cos’è meglio per noi). E non sarà un caso se un primo sopralluogo senza pretese rivela che la formula è presente in decine di libri e articoli degli ultimi cinquant’anni, tutti o quasi tutti di autori legati a una delle due chiese, la cattolica e la comunista. O a entrambe. È appena una molecola, ma c’è tutto: una lettura (alquanto cupa) del miracolo economico e delle altre stagioni di relativa prosperità; l’idea che l’arricchimento improvviso, se non saggiamente guidato, possa pervertire i genuini costumi degli italiani; soprattutto, c’è il presupposto paternalistico che esista un’aristocrazia di Buoni Intenditori del Benessere in grado di insegnare qual è il giusto modo, e virtuoso, di essere ricchi. In breve, una molecola clericale che serpeggia nelle menti di molti laici. Ma la mia è una parafrasi fin troppo verbosa, e a buon intenditor poche parole. Ne bastano due. Leggi il seguito di questo post »
Lager Gomorra. Roberto Saviano lettore di Primo Levi
Per diventare cuoco ad Auschwitz devi saper tirare di boxe, spiegò a Primo Levi un medico ungherese dopo l’arrivo nel campo, perché ti capita di dover stendere a pugni chi allunga le mani sui viveri. Chissà, dopo un tale apprendistato, come Levi avrebbe schivato il micidiale uno-due che gli è piovuto addosso in questi giorni. Prima Gad Lerner che gli mette in bocca l’espressione “razza ebraica”, un colpo sotto la cintola di quelli che l’arbitro dovrebbe espellerti da tutti i ring del regno; poi l’abbraccio di un pugile più leale, Roberto Saviano – ma un abbraccio nella boxe è insidioso, serve a impacciare i movimenti dell’avversario. L’occasione è l’audiolibro di Se questo è un uomo letto da Saviano, di cui Repubblica ha anticipato, il 6 novembre, uno stralcio dell’introduzione. Prendiamone una frase, una citazione di Philip Roth su Levi: “Dopo averlo letto non puoi più dire di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di quello che è successo, ma sei lì”. Davvero Roth disse questa frase? Lo stesso Saviano ne dubita, tanto che confessò a Enzo Biagi di crederla una leggenda. Ma è una leggenda che gli è cara, e che ama ripetere spesso, anche in una variante estrema (non si può dire “di non essere stati in fila fuori da una camera a gas”). E non c’è da stupirsene, già che questo Roth dal suono apocrifo sembra tagliato su misura per la retorica della testimonianza dell’autore di Gomorra: l’idea cristologica dello scrittore che si cala negli inferi con tutti e cinque i sensi e ne emerge per donare ai lettori la “presenza reale” della parola. Leggi il seguito di questo post »
Gad Lerner e il porto abusivo di Primo Levi
Sono rapaci, le dicerie: scelgono una preda, la braccano, la spolpano, vi si accaniscono finché non se ne annoiano, poi la lasciano lì a marcire e via, a inseguirne un’altra. Questo non toglie che vi siano specie prese di mira più di altre. “L’eterno ritorno delle voci è il destino dei capri espiatori”, scriveva Jean-Noël Kapferer in un libro sui più antichi media del mondo, Le voci che corrono. “In Occidente gli ebrei hanno costituito il modello ideale di capro espiatorio, il bersaglio immediato delle voci: dal presunto avvelenamento dei pozzi durante le epidemie di peste dal 1348 al 1720 fino al sospetto di omicidio rituale”. Il libro è del 1987, e Kapferer poteva ancora illudersi che il destino naturale delle voci fosse quello di spegnersi: non immaginava certo il giorno in cui sarebbero rimaste impigliate in eterno nella rete. Leggi il seguito di questo post »
La canzone mononota di Eugenio Scalfari
Si dice che un orologio rotto segni due volte al giorno l’ora esatta, ma il commento di Eugenio Scalfari ai risultati delle elezioni spinge a dubitare di questa legge generale. Martedì, su Repubblica tv, il Fondatore ha spiegato la causa profonda del tracollo: un millennio di dominazioni straniere. Si deve al retaggio dei normanni o degli spagnoli se una parte dei nostri concittadini non crede nello Stato e nelle sue leggi, e quella parte degradata “è fatta da due categorie: gonzi o furbi”. Poche settimane prima la pendola scalfariana aveva dato lo stesso rintocco: “La nostra indifferenza alla vita pubblica, la nostra scelta del ‘particulare’, (…) la nostra disponibilità alla demagogia, sono un derivato della nostra storia. ‘Francia o Spagna purché se magna’ è un proverbio che sintetizza quattro secoli di servitù a potenze straniere e a Signorie servili e corrotte”. Anche Scalfari, come Elio, ha la sua “canzone mononota”, e setacciando gli archivi di Repubblica e il mattoncino del Meridiano si potrebbe comporre un breviario dello scalfarismo in pochi semplici concetti, buoni per fraintendere tutte le stagioni della vita repubblicana: la polemica contro “l’uomo del Guicciardini” e il “familismo amorale”, il qualunquismo come nemico mortale, i valori (propri) contrapposti non già ad altri valori ma alla meschinità degli interessi, l’eterna maschera del Pulcinella o del Pantalone identificato, di volta in volta, con uno dei personaggi che calcano la scena pubblica (Berlusconi prima di tutto, ma ora per lui è Grillo “l’arci-italiano del peggio”), insomma tutta la sentina dei vizi italici su cui far discendere l’apostolato civile dell’“Officiante del dover essere”, titolo di cui Scalfari stesso si è voluto fregiare. “È la maledetta malattia italiana: l’uomo del Guicciardini, che tira a campare; il solito Stenterello, servitore di dieci padroni”. Questo però non è Scalfari, è Piero Calamandrei, addì 1946, all’epoca del referendum sulla monarchia. Le lancette, a quanto pare, sono ferme lì. Leggi il seguito di questo post »
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