Guido Vitiello

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Cimeli radicali (Mani bucate, 2)

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Il cuore è una sudicia bottega di straccivendolo, diceva Yeats, e mai ce ne accorgiamo meglio di quando se ne va una persona amata. I lutti privati si addolciscono rovistando nelle credenze, negli album di fotografie, nei bauli di cose dismesse; per l’addio a un uomo pubblico ci sono invece le biblioteche, gli archivi dei giornali, le labirintiche rigatterie della rete. Ma dove frugare quando il morto non appartiene a nessuno dei due regni, conteso tra l’uno e l’altro? Ho cominciato a collezionare cimeli radicali quando Pannella era ancora vivo, e la nostra breve amicizia li ebbe spesso come pretesto: lui mi invitò a sfogliare vecchi numeri di Liberazione, il quotidiano che diresse, e in buona parte scrisse di suo pugno, tra il 1973 e il 1974; io gli portai il numero di Playboy del gennaio 1975 con le gemelle Kessler in copertina, comprato a caro prezzo su eBay in un accesso di mani bucate, dove c’era una sua lunga intervista con tre bellissime fotografie (“ammazza quanto eri fico da giovane”, gli disse il gestore del Lucano in via di Torre Argentina, e avrebbe voluto appendersi quella pagina nella trattoria). Sognavo di chiedergli un manifesto del referendum Tortora, introvabile in rete, ma me ne mancò il coraggio o l’insolenza. Ora l’intervista a Playboy si può leggere in un libro curato da Lanfranco Palazzolo per Kaos Edizioni (La rosa nel pugno. Interviste e interventi, 1959-2015) accanto ad altre memorabili, tra cui una su brigatismo, millenarismo e comunismo al cui paragone sbiadiscono le pagine della Rossanda sull’“album di famiglia”. Leggi il seguito di questo post »

La fabbrica dei divi politici

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Star is born 2Scacciare in malo modo tutti i demoni, da bravo monaco del deserto, ma lasciare aperto uno spiraglio per quello che Mallarmé chiamava il demone dell’analogia, l’unico da cui si possa ottenere qualche buon favore. Come precetto religioso non vale granché, ma usato con giudizio dà i suoi frutti. Rivedendo giorni fa A Star is Born, la versione del 1937 di un film rifatto più volte nei decenni successivi, c’era una scena che continuava a ricordarmi insistentemente qualcos’altro, ma che cosa? La scena è quella in cui Janet Gaynor, nel ruolo di una ragazza di campagna che tenta la fortuna a Hollywood, è circondata da esperti degli studios in camice bianco che le disegnano sopracciglia di ogni foggia, le allargano la bocca per studiare le potenzialità del suo sorriso, la cospargono di ciprie e di rossetti. Ha l’aria di un piccolo martirio, di un pigmalionismo da laboratorio, ma d’altronde nella Hollywood degli anni d’oro la trasformazione della donna in diva era un processo ascetico e crudele, degno di un racconto di Wedekind, o – come ha suggerito Jeanine Basinger in un bel libro che ne descrive le tappe, The Star Machine – di un mercato delle schiave arabo del decimo secolo. Leggi il seguito di questo post »

Non ci sono più i cretini di una volta

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Non ci sono più i cretini di una volta. Leonardo Sciascia li ricordava quasi con rimpianto: quei bei cretini genuini, integrali, come il pane di casa, come l’olio e il vino dei contadini. La loro scomparsa seguì a breve giro quella delle lucciole, e chissà che tra i due fenomeni non ci sia un nesso misterioso. Poi venne l’epoca della sofisticazione, per gli alimenti come per gli imbecilli: “È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino”, annotava sconsolato in Nero su nero. A rendere possibile questa confusione incresciosa, a intorbidare le acque era stata l’improvvisa disponibilità di gerghi intimidatori dietro cui far marciare le banalità più indifese. Sciascia sceglie una data convenzionale, il 1963, anno in cui comincia l’ascesa, a sinistra, di un tipo nuovo di cretino, il cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare”. Si annunciava la stagione d’oro del cretino dialettico, operaista, maoista, strutturalista, althusseriano, insomma il cretino a cui Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini avrebbero eretto il monumento del Piccolo sinistrese illustrato. Sciascia era persuaso che il più insidioso mascheramento della stupidità fosse la complicazione non necessaria, l’arzigogolo, e scelse per metafora il berretto di Charles Bovary: Flaubert impiega mezza pagina a descriverne la fattura assai composita, per concluderne che in fin dei conti somigliava alla faccia di un imbecille. Leggi il seguito di questo post »

Written by Guido

novembre 18, 2012 at 3:13 PM