Archive for the ‘guviblog’ Category
Salone del libro 2009: dal nostro inviato Ennio Flaiano
A volte penso che si possa comporre un giornale perfettamente al passo con l’attualità solo riciclando e assemblando vecchi articoli, o perfino esumando pagine di giornali estinti, fatti salvi i dovuti aggiustamenti e la sostituzione di qualche nome, sigla o luogo.
Ammetto che un’idea simile tradisce una visione non proprio incoraggiante della storia umana come eterna ripetizione di uno stesso spettacolo, dove cambian solo gli scenari e i nomi dei primattori (e a volte, in un paese dinastico come il nostro, neppure quelli).
Potrebbe chiamarsi Qohelet Daily, il mio giornale, in omaggio al suo biblico ispiratore, o anche (Nihil Novi Sub) Sole24Ore. Tutto questo per dirvi che, di ritorno dal Salone del libro di Torino, il mio giornale atemporale pubblicherebbe come pezzo “di colore” questa noterella di sessantuno anni fa. Leggi il seguito di questo post »
Murena, Zolla, Borowski: tre recensioni inattuali
Una notte gli ebrei di un villaggio chassidico, seduti a circolo in una catapecchia, giocavano a confessarsi i desideri più segreti: chi voleva danaro, chi un banco da falegname.
Un mendicante, acquattato in un angolo, prese la parola per esprimere la sua aspirazione: avrebbe voluto essere il sovrano di un vasto regno, preso d’assedio dai nemici, costretto a fuggire nella notte in preda al terrore, senza nemmeno il tempo di vestirsi, con in dosso una camicia acciuffata di corsa, e poi traversare mari e monti per arrivare, sano e salvo, nella catapecchia. “E cosa avresti guadagnato?”, chiesero gli altri, sconcertati. “Una camicia”. Sì, ma una camicia intrisa del ricordo del Regno da cui fummo scacciati con Adamo.
La storiella è riportata da Héctor Murena in uno dei saggi di La metafora e il sacro, pubblicato nel 1973, due anni prima della morte. L’itinerario dello scrittore argentino corse parallelo a quello di Elémire Zolla, di cui fu sodale nell’elusivo cenacolo romano che trovò espressione nella rivista “Conoscenza religiosa”. Come Zolla in Italia, Murena fu il mentore argentino della Kulturkritik francofortese; come Zolla, scrisse una furente critica alla civiltà di massa (Homo atomicus) dove la trasognata lucidità del profeta conviveva con la sottile ciarlataneria dell’indovino che vede ovunque Segni dei Tempi. Leggi il seguito di questo post »
Appunti per un’Orestiade Alleniana
Appena ho saputo che Oreste Lionello se n’era andato, confesso, la mia mente è corsa alla fatale domanda, che mi era già balenata decine di volte quand’era ancora in vita: chi doppierà, d’ora in poi, Woody Allen? Chi non ha pensato lo stesso, scagli la prima pietra.
A tal punto mi sono affezionato al doppiaggio di Lionello che nelle mie maratone alleniane mi piace tuttora alternare le versioni originali a quelle italiane. E compararle; perché sono vistosamente diverse, come dimostra un semplice esercizio di collazione. Non si tratta, badate, di discrepanze banali dovute all’esigenza di volgere nella nostra lingua battute intraducibili o frasi idiomatiche: c’è molto di più, e di più interessante.
Invoco pertanto da questa tribuna la fondazione di una cattedra di Filologia Alleniana, che sappia sviscerare la questione come merita; e nel frattempo, nel mio piccolo, faccio quel che posso – cioè, nientemeno, porre le basi della erigenda disciplina. Le divergenze, mi pare, si possono raggruppare in tre grandi famiglie. Leggi il seguito di questo post »
Schindler’s Playlist. Canzoni sull’Olocausto
Quante canzoni ha ispirato il genocidio degli ebrei? Non moltissime, sembra di poter dire. Un numero irrisorio, a fronte dei film o dei romanzi dedicati a quella stessa pagina di storia. Ma sono poche anche se usiamo come termine di paragone le canzoni nate intorno ad altri eventi storici, per esempio il genocidio degli indiani d’America (tanto per cominciare, due interi album di due giganti, Fabrizio De Andrè e Neil Young).
Ho provato a fare un primo e lacunoso censimento, tenendo conto solo delle più note (molte delle quali non sono nemmeno così note). Chi ha da segnalarne altre, si faccia avanti: magari salta fuori che la mia ipotesi è strampalata, e che le canzoni sull’Olocausto sono tante e famose, e insomma che tutto il problema si riduce a quello della mia ignoranza canzonettistica.
Ad ogni modo eccole, in ordine cronologico:
Woody Guthrie, Ilsa Koch (1948)
Confesso: prima di stasera ignoravo l’esistenza di questa canzone, dedicata alla “strega di Buchenwald”, la moglie del comandante del campo, sadica torturatrice che ha ispirato buona parte del filone porno-nazi. Guthrie è rapido, essenziale, cinematografico. Con pochi cenni e pochi fronzoli descrive la catena di montaggio della morte industriale, senza il bisogno di costruirci intorno una retorica: “Here comes the prisoner’s car./ They dump them in the pen./ They load them down the schute./ The trooper cracks their skulls./ He steals their teeth of gold./ He shoves them on the belt./ He swings that furnace door./ He slides their corpses in./ I see the chimney smoke./ I see their ashes hauled./ I see their bones in piles”.
Bob Dylan, With God on Our Side (1964)
Dal maestro all’allievo, che diviene a sua volta maestro. Il pudore di Dylan sull’Olocausto è noto, anche se decine di sue canzoni vi alludono in modo obliquo. With God on Our Side non è una canzone su Auschwitz, ma i “sei milioni” sono nominati direttamente e senza giri di parole: “When the Second World War/ Came to an end/ We forgave the Germans/ And we were friends/ Though they murdered six million/ In the ovens they fried/ The Germans now too/ Have God on their side”. Leggi il seguito di questo post »
Molti i letti, pochi gli eletti: i libri del mio 2008
Eccovi, in ritardo più sconcio del consueto, la classifica dei libri memorabili letti nel 2008. Che annata miserella. O meglio: per l’ennesima volta, mi accorgo che la proporzione tra le letture fatte e le letture che davvero meritava fare è, a dir poco, avvilente. E come ogni anno, mi ripropongo di tornare ai classici. Tra i libri in cui mi sono imbattuto, ad ogni modo, vi elenco in ordine sparso quelli che non rimpiango di aver conosciuto.
1. Sergio Solmi, Meditazioni sullo Scorpione
(Folgorante, specie per quelli nati sotto il mio segno: uno di quei libri che riscattano un’annata intera, e che fanno venir voglia di riprendere in mano la penna e scrivere qualcosa del genere, almeno quanto la frustrano per palese irraggiungibilità del modello)
2. René Girard, Achever Clausewitz
(Tra i libri “maggiori” di Girard è forse il meno convincente; ma è anche, probabilmente, l’ultimo che scriverà. E l’addio di un gigante è pur sempre un grande addio)
3. George Steiner, My Unwritten Books
(A Steiner dovrei intentare causa, perché oltre ai soldi che spendo per i suoi libri, gli andrebbero messi sul conto quelli per i libri che mi spinge a comprare – e sono decine e decine. Questo non fa eccezione)
4. Yannick Haenel, A mon seul desir
(Con Haenel ho cercato di recuperare un po’ della folgorazione avuta a Cluny, davanti al ciclo di arazzi della Dame à la Lycorne. Ma il suo libro, per me, ha brillato quasi solo di quella luce riflessa. E rossastra)
5. Edoardo Camurri, L’Italia dei miei stivali
(Wilcock redivivus. D’accordo, con Camurri potrei esser tacciato di partigianeria, ma il libro sprizza luce e spirito da ogni pagina. Non si sa se sia sbarcato dal Settecento di Voltaire e Swift o direttamente da Sirio) Leggi il seguito di questo post »
Misheard Lyrics: Pasolini, Modugno e la querelle dell’erbaccia
Capita a tutti di fraintendere le parole di una canzone, perché magari il cantante farfuglia o è sovrastato da un batterista energumeno; dopodiché si resta beatamente arroccati nell’errore per anni o decenni. Sulla questione son stati scritti fior di articoli, di libri, per tacere degli eruditissimi siti-archivio in perenne aggiornamento, dove è censito qualunque fraintendimento passato o presente. In alcuni casi, però, il mishearing è più imperdonabile.
Qualcuno forse ricorderà la splendida canzone che Domenico Modugno, nelle vesti di un Caronte netturbino incaricato di portare gli umani-burattini nelle discariche dell’Ade, canta in Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini. Il cortometraggio, forse la cosa migliore di Pasolini regista insieme a La Ricotta, ruota tutto intorno a una messinscena popolaresca dell’Otello di Shakespeare, un teatro dei pupi con Totò nelle vesti di Iago, Ninetto Davoli in quelle del Moro, Franco e Ciccio come Cassio e Roderigo.
Poco prima della fine, Modugno canta questa canzone, su testo dello stesso Pasolini (e reinterpretata trent’anni dopo dagli Avion Travel). Leggi il seguito di questo post »
No hay banda: il poeta come sciamano e come magnetofono
In tempi (sciagurosi) di slam poetry e di reading, di Dante declamato in piazza e di performance letterario-musicali baroccheggianti o bariccheggianti, di rap sanguinetiani e arbasiniani, l’imperativo sembra essere ben questo: affrancare la poesia, tenuta per cinque secoli sotto sequestro – nonché, letteralmente, sotto torchio – dagli scherani di Gutenberg, così da ricondurla alla sua prima radice orale, aurale, musicale, agonistica, retorica e via dicendo.
Ebbene, in tempi (nefasti) come questi, mi capita di tornare con simpatia a quei poeti che mal tolleravano la vita dei loro versi al di fuori della pagina stampata, che guardavano con sospettoso cipiglio da istitutori il loro svergognato propagarsi nello spazio extra-cartaceo come onde sonore, e che in ultimo ritenevano vi fosse un solo modo corretto di accostarsi alla poesia: quella che, da Sant’Ambrogio in poi, in occidente conosciamo come lettura silenziosa.
Tra questi, per esempio, Eugenio Montale. Credo fosse sullo storico numero uno di “Repubblica”, il 14 gennaio 1976, che il poeta fresco di Nobel ribadiva la sua avversione alle letture e alle declamazioni: i suoi versi erano fatti per restare lì, su carta – i “pochi fogli” dei Mottetti trattenuti da uno strano fermacarte, la moneta incassata nella lava. Non per caso, quando sentiamo Montale leggere le sue poesie davanti a una macchina da presa (lo ricordo recitare per la televisione con grandissimo imbarazzo Botta e risposta, da Satura) avvertiamo tutto il suo riserbo, il suo pudore verso un gesto che gli appariva in fin dei conti goffo, violento, innaturale. Leggi il seguito di questo post »
Il “quarto incomodo” di Martin Amis
All’epoca dei totalitarismi, sul più banale dei triangoli amorosi pende fatalmente l’ombra di un quarto incomodo: lo Stato, con il suo “peso plumbeo, il respiro adenoideo e lo sguardo imbecille”.
È quel che succede a due fratellastri internati come “fascisti” nel gulag di Norlag e innamorati della stessa donna, la giovane ebrea Zoya, sullo sfondo dell’Unione Sovietica dai tardi giorni di Stalin al disfacimento. Il romanzo di Martin Amis (edito da Einaudi), che si presenta come confessione tardiva e senza espiazione di uno dei fratelli-rivali alla figliastra di Chicago, vive tutto di questo attrito irresolubile tra mélo ed epopea delle moltitudini, tra un mondo dove il destino è inscritto nel carattere e un altro, ben più reale e poderoso, dove esso alberga nelle “forze impersonali” della demografia.
Questa giustapposizione paradossale e sapientemente coltivata di figura e sfondo, dove lo sfondo è troppo immane per non travolgere e “sfigurare” le figure, è esibita fin dal titolo, La casa degli incontri, un grottesco chalet a due piani nei pressi del gulag dove ai deportati era consentito intrattenersi con le mogli, che li raggiungevano in Siberia dopo un viaggio estenuante per ritrovarli spesso irriconoscibili anime morte. Leggi il seguito di questo post »
Amo le rose che non colsi (e i libri che non scrissi)
Due reggilibri affiancati, e il vuoto in mezzo: My Unwritten Books (New Directions, New York 2008), il libro di George Steiner sui suoi libri non scritti, risuona a lutto fin dalla copertina.
Il lutto di chi sul finire dei giorni si trova davanti i montaliani “pochi fogli”– che siano poi davvero pochi o molti (nel caso di Steiner, una trentina di volumi) non importa: è sempre un monticello irrisorio a fronte della selva dei possibili, delle opere fantasticate e mai date alla luce.
È, questo, il libro più scopertamente autobiografico di Steiner, perfino più di Errata. Quando, in Chinoiserie, tradisce la sua fascinazione per la mente titanica del biochimico e sinologo Joseph Needham, autore di un’opera che ha l’architettura strabiliante di un theatrum mundi barocco, avvertiamo il senso d’impotenza di un altro grande erudito, che tuttavia quasi mai ha trovato l’energia mentale per dar forma sistematica alla sua erudizione.
Quando Steiner tenta, per cenni, di fondare una poetica e una retorica dell’amore carnale (The Tongues of Eros), intravediamo la vicenda quasi picaresca di un’educazione sentimentale vagabonda tra l’Europa e l’America. Quando poi si avventura su un terreno assai scivoloso, quello di definire una Jewishness immutevole, un'”essenza” perenne dell’ebreo (Zion), ecco che si fa sentire, sottotraccia, l’orgoglio dell’esule per destino che si fa chierico vagante per vocazione. Leggi il seguito di questo post »
Bollettino di un gusano escuálido/2
Alcuni mi hanno chiesto come mai, da gusano escuálido quale sono, non ho scritto ancora nulla sul ritiro dalle scene di Fidel Castro. È presto detto: aspetto che accada qualcosa di dirompente.
Non so, delle libere elezioni, una commissione per la verità e la riconciliazione che riabiliti le migliaia di vittime di cinquant’anni di dittatura, un qualche straccio di diritto sindacale per i lavoratori cubani. Per il resto, le velleità “cinesi” di Raúl – qualche apertura capitalistica nell’assenza totale di libertà politiche – erano note da anni a chi segue le vicende cubane.
Non ho scritto nulla su Castro, ma qualche castrista ha scritto su di me: la rivista Latinoamerica diretta da Gianni Minà ha infatti recensito, in modo prevedibilmente negativo, Cuba, totalitarismo tropicale (Ipermedium libri) di Jacobo Machover, libro di cui ho curato l’edizione italiana e scritto l’introduzione. La recensione, siglata dalla direttrice responsabile Alessandra Riccio (sul n. 101, 4/2007), precisa che il “lettore paziente” può anche leggere l’introduzione a firma di un tal Guido Vitello (sic).
Monsieur Boviny c’est moi, e ne vado vachement orgueilleux, che è come dire bovinamente fiero. Per carità, non credo che mi abbiano storpiato il cognome di proposito per character killing: si sa da sempre che su questi accorgimenti di editing l’officina Minà non va per il sottile, che si tratti di amici o nemici – anni fa, sulla stessa rivista, il buon Gianni commentava “il discorso di Fidel Castro a Durbans (Sudafrica)”, scambiando ripetutamente una città con un dentifricio. Leggi il seguito di questo post »
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