Archive for the ‘Giustizia’ Category
Davigo, un disneyano all’Anm
Rassegniamoci stoicamente a chiamarla Tangentopoli perché, come si dice, il destino guida chi lo asseconda ma trascina a forza i riluttanti. Per anni ho aggirato quella detestabile formula giornalistica, ricorrendo a tutte le perifrasi e le circonlocuzioni del caso, ma è arrivato il momento di capitolare. Quanto più il 1992 si allontana nel tempo, tanto più cresce il vizio di leggere i problemi della giustizia e della corruzione alla luce non già dei grandi classici del pensiero politico ma dei Grandi Classici Disney. Tangentopoli si è aggiunta ormai alle due capitali di quel regno di fantasia, Paperopoli e Topolinia, dove s’incontrano personaggi come il commissario Basettoni, l’ispettore Manetta, la Banda Bassotti e l’avvocato Cavillo Busillis. Niente di nuovo, si potrà obiettare, ci sono disneyani di lungo corso – Travaglio con i suoi monologhi teatrali tanto amati dalle scolaresche, l’ex magistrato Bruno Tinti che invocava tempo fa un “partito delle guardie” nel paese dei ladri – ma lo spirito dei fumetti vive in questi giorni la sua grande rivincita. Leggi il seguito di questo post »
E usiamolo, questo Montesquieu
“Se proprio non riesce a dormire”, mi ha detto il dottore, “prenda dieci gocce di Minias; in alternativa, legga dieci righe di Nadia Urbinati”. Farmacie notturne in zona non ce n’erano, così ho dovuto ripiegare sull’unico rimedio che avevo sottomano: la prefazione della Urbinati a un piccolo libro di Dario Ippolito, Lo spirito del garantismo. Montesquieu e il potere di punire (Donzelli). Alla quinta riga, metà della dose, già mi pareva di leggere il famigerato tema di attualità dell’esame di maturità, scritto per giunta dalla prima della classe, e si sa bene che il semplice ricordo di quell’esame – unito all’incubo comune di doverlo ripetere da grandi– può togliere il sonno a chiunque. Niente da fare, ho saltato la prefazione e son passato a Ippolito, scoprendolo però tutt’altro che soporifero. “Garantismo è parola svilita, deturpata dall’abuso”, esordisce nel brillante prologo. “Spesso, e comprensibilmente, suscita sospetto, insofferenza. Evoca, nell’immaginario di molti, cavilli procedurali e scaltrezze curiali. Suona falsa, come la cortesia dei padroni e la riverenza dei servi”. Ippolito passa poi in rassegna il mesto corteo degli attributi: garantismo peloso, d’accatto, ipocrita… Bene, mi son detto. Sciascia per primo non amava la parola garantismo, preferiva dirsi difensore del diritto, e io, fatte le debite proporzioni (che sono quelle di una carta geografica, 1:10.000) condivido il suo fastidio. Leggi il seguito di questo post »
Sperate che siano innocenti
Bis, ter, quater in idem: come processi perennemente ricelebrati, ci sono dilemmi tenaci che tornano di secolo in secolo. Commentando la vicenda Stasi, sul Foglio del 15 dicembre, l’ex magistrato Piero Tony ha scritto che dobbiamo mettere sotto accusa “il sistema processuale – che va urgentemente riformato – e non i magistrati suoi celebranti”. Con regole migliori, se ne deduce, casi raccapriccianti come quello che ha portato alla condanna di un pluriassolto sarebbero impensabili. E sia; ma in un lampo di déjà-vu ho ripensato alle battute finali dell’ultimo intervento pubblico di Enzo Tortora, in collegamento telefonico dal suo letto d’ospedale con la trasmissione “Il testimone” di Giuliano Ferrara. Alessandro Criscuolo, presidente allora dell’Anm (e oggi della Corte Costituzionale), sosteneva che il caso Tortora era nato dalle scorie di un sistema processuale figlio di tempi bui e autoritari, che la radice delle storture era nel vecchio rito inquisitorio tutto sbilanciato sull’accusa, che l’imminente introduzione del nuovo codice avrebbe reso impossibile il ripetersi di una tragedia come quella (non si azzardava a chiamarlo errore). Cercava poi, in tono di curiale sollecitudine, di ottenere l’assenso di Tortora, che però trovò un filo di voce per rispondergli, o meglio per mettere la domanda a testa in giù: “Io credo che voi siate impegnati in una difesa corporativa”, disse. “Volevate difendere la vostra cattiva fede”. Dalle colpe del sistema eccoci riportati alle colpe degli uomini. Leggi il seguito di questo post »
L’antilingua giudiziaria e il disturbo passivo-aggressivo
I manuali di scrittura si somigliano un po’ tutti. Invitano alla semplicità, alla concisione, alla chiarezza, all’eleganza; sono imbottiti di epigrafi e citazioni da autori più o meno illustri; ammiccano di continuo al lettore con quel caro, affabile, professorale spirito di patata che risveglia anche nel più mite l’ombra vendicatrice di Franti; citano compulsivamente Italo Calvino – la maledetta leggerezza di Italo Calvino. Per fortuna citano anche quel magnifico articolo del 1965 sull’“antilingua”, ossia “l’italiano di chi non sa dire ‘ho fatto’ ma deve dire ‘ho effettuato’”, la lingua sepolcrale e dilatoria delle burocrazie, piena di circonlocuzioni e di termini astratti e di subordinate che si annodano in serpentoni sintattici indistricabili. La peste dell’antilingua ha molti focolai, e ogni manuale pesca i suoi esempi nel lazzaretto più familiare all’autore: nei comunicati aziendali, nelle circolari ministeriali, nella prosa accademica. Davanti al breviario di scrittura di un magistrato, capirete bene, mi si sono subito drizzate le antenne. Con parole precise (Laterza) di Gianrico Carofiglio somiglia a molti altri manuali, ma prende il grosso dei suoi esempi da sentenze, verbali d’interrogatorio, trascrizioni di intercettazioni. Ebbene, com’è fatta l’antilingua giudiziaria? L’aspetto esteriore non è così originale – come i manuali di scrittura, i dialetti dell’antilingua si somigliano un po’ tutti – ma sulla sua ragione profonda Carofiglio ha un’idea formidabile. Leggi il seguito di questo post »
La giustizia delle vittime. Cronaca di una notte insonne
Quando la notte penso alla giustizia, non mi addormento più. Ogni volta ce n’è una nuova, e l’ultima mi toglie il sonno da ormai una settimana. L’11 settembre, a margine di un incontro alla Festa dell’Unità di Firenze, un cronista ha chiesto al ministro Orlando un commento sull’ennesimo strascico del caso Marta Russo. Lui se n’è astenuto, salvo enunciare il principio generale che la vicenda gli pare suggerire: “Bisogna ragionare su come costruire un rapporto tra chi ha commesso il reato e la vittima”. Possibile? Io ero certo che il caso sollevasse il problema opposto, ossia come spezzare quel rapporto e impedire che il ruolo delle vittime e dei loro parenti produca effetti perversi sullo Stato di diritto. Che avrà voluto intendere, il ministro? O era sovrappensiero e ha detto la prima frase che gli passava per la testa? Il sonno, intanto, era perso. D’altronde la questione dei parenti delle vittime è antica quanto il più antico dei processi, quello effigiato sullo scudo di Achille, lì sta il confine tra vendetta e giustizia, come pretendere di venirne a capo in una notte? Leggi il seguito di questo post »
Scattone cacciato dal Tempio della Cultura
Avete mai visto un’allegoria medievale delle Arti liberali? Sapeste che aria seriosa hanno le fanciulle che raffigurano il Trivio, ciascuna accompagnata, come una sposa all’altare, dal suo più insigne esponente: la Grammatica con Prisciano, la Retorica con Cicerone, la Dialettica con Aristotele. Ora che abbiamo cacciato Giovanni Scattone dal tempio della cultura, salvando in un sol colpo l’onore di tre damigelle – Filosofia, Psicologia e Pedagogia, raccolte nel trivio burocratico della classe di concorso A036 – dobbiamo festeggiare la liberazione con un affresco, un bassorilievo, meglio ancora un gruppo scultoreo, tra un puttino e una colonna, una colonna e un puttino. Leggi il seguito di questo post »
Non potevo parlare
Piccolo quiz. «Ho deciso che è arrivato il momento di dire basta. Il momento di smetterla di tacere. Dopo tutto quello che ho visto, dopo tutto quello che ho sentito, ho preso una decisione: mollare… L’ho fatto perché continuare così non era più possibile. L’ho fatto per essere libero di parlare…». Chi ha detto queste parole, e a che proposito? Possibili soluzioni: il pentito Gaspare Spatuzza dopo la conversione religiosa, parlando di Cosa Nostra; l’ex terrorista Patrizio Peci al generale Dalla Chiesa, parlando delle Brigate Rosse; un magistrato settantatreenne che si è messo in pensione con un paio d’anni di anticipo, parlando della magistratura italiana. La risposta più inverosimile è anche quella vera. Piero Tony, già procuratore capo di Prato, rivela i segreti della sua corporazione nel libro Io non posso tacere (Einaudi), a cura di Claudio Cerasa. Dal tono delle prime frasi, ci s’immagina una di quelle confessioni televisive a volto oscurato e voce deformata, e ci si aspetta di scoprire come minimo che il Csm è una centrale massonica composta integralmente da rettiliani, e che nei sotterranei dei tribunali si svolgono sacrifici rituali di stampo azteco. Niente di tutto questo. Tony, magistrato «certificato e autocertificato di sinistra», affiliato a Magistratura Democratica fin dal 1969, dice cose che tutte le persone di buon senso dicono da decenni, eccetto i magistrati. Che l’obbligatorietà dell’azione penale è una colossale presa in giro; che la separazione delle carriere è una cosa talmente ovvia che non si dovrebbe neppure discuterne, in un Paese serio; che il Csm è dominato dalle correnti; che i pm possono usare arbitrariamente gli strumenti d’indagine; che la magistratura esercita un indebito potere di supplenza. Il libro è un eccellente compendio di storici argomenti garantisti, esposti con grande schiettezza, ricchezza di esempi e forza polemica. Leggi il seguito di questo post »
Guarire dal populismo penale
Non so se gli psicoanalisti applichino ancora il metodo junghiano delle parole-stimolo a cui il paziente deve associare la prima cosa che gli passa per la testa, ma ogni volta che sento la formula “populismo penale” – e grazie al cielo accade un po’ più spesso di prima – subito affiorano due ricordi, entrambi legati a Francesco Saverio Borrelli. Il primo è un piccolo ma spettacolare rovesciamento di frittata che il procuratore capo amava fare a metà degli anni Novanta in risposta alle accuse di giustizialismo. I nostri nemici non sanno neppure usare le parole, diceva pressappoco Borrelli, perché il justicialismo era l’ideologia di Perón, dunque è sinonimo di populismo, dunque il vero giustizialista (lui non faceva il nome) è Berlusconi. Il secondo ricordo, che ha tuttora il potere di guastarmi il sonno, è una frase sibillina pronunciata nei giorni trionfali di Mani Pulite: “Quando la gente ci applaude, applaude sé stessa”. Quasi un calco della formula di Durkheim secondo cui la religione è la società che adora sé stessa. Se ne poteva dedurre che Borrelli attribuiva al pool una funzione sacra o totemica, di canalizzazione di energie collettive: invece di Manitù, Manipù. I due ricordi avranno senz’altro un legame segreto nei meandri della mia nevrosi garantista, ma ne hanno anche uno manifesto, ed è questo: il populismo penale, l’uso improprio di strumenti giudiziari per ricercare il consenso, è tanto più infido in quanto è acefalo o policefalo. A differenza dei populismi radunati attorno a un capo, può assumere molti volti più o meno effimeri, incarnarsi secondo le occasioni in un pm giustiziere, in un politico gracchiante, in un giornale di secondini, in una vittima esemplare che chiede riparazione esemplare, o può anche mimetizzarsi nelle sembianze anonime di una moral majority. Insomma, è un mostro proteiforme politico-giudiziario – e poi dice che uno non dorme la notte. Leggi il seguito di questo post »
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.