Posts Tagged ‘Matteo Renzi’
Cordero for dummies
La prosa di Franco Cordero si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo, e per questo lo leggo e lo rileggo con la stessa malsana avidità con cui mi soffermo davanti alle vetrine di finti mobili antichi. Il suo comò di più recente fattura, “Il berlusconismo visto dalla Luna”, esposto nei saloni di Repubblica giovedì 3 settembre, è una squisitezza per noi amanti del kitsch antiquario. A far da ossatura c’è il solito periodare da storiografo latino, diciamo pure un Sallustio rifatto da un telegrafista (“cortigiani di lungo corso cambiano cautamente divisa – stop – oligarchi della pseudosinistra baciavano la pantofola berlusconiana – stop – ex comunisti garantiscono intangibili i fondamenti del conflitto d’interesse – stop – manovre camerali lo riqualificano aprendogli la via d’una doppia rivincita – stop”). Su questo solido legno romano antico si stende il piallaccio di un bel secentismo da anonimo manzoniano, un centone così persuaso di sé che forse non sa neppure di essere un centone – l’Italicum che è “monumento d’insigne furberia”, la corruzione berlusconiana che “sapeva d’epidemia cinquecentesca (morbo gallico o ispanico)”; a far da vezzoso ornamento, infine, qualche tocco del Gadda satirico, quello di Eros e Priapo, ma come essiccato di ogni umor nero e ridotto alla moltiplicazione degli epiteti (Re Lanterna, Berlusco Magnus, l’Olonese). Cosa volete di meglio, per la divertita pacchianeria del vostro salotto? Cosa aspettate a presentarvi all’asta? Leggi il seguito di questo post »
Sui danni del liceo classico
Le radici comuni dell’Europa non sono né cristiane né pagane, le radici comuni dell’Europa sono nel liceo classico fatto a cazzo di cane. È l’unica conclusione che mi sento di trarre dopo giorni di lettura forsennata dei commenti alla vicenda greca, nei quali Alexis Tsipras è stato paragonato, in ordine sparso: all’astuto Ulisse che naviga nei mari della crisi in cerca di un approdo sicuro, sfuggendo alla Circe europea che trasforma gli stati in porci (i famosi Pigs); a Perseo che decapita l’orrida Gorgone della troika; a Ercole che decapita con più spargimento di sangue l’Idra di Lerna della medesima troika; ad Aiace colto da improvvisa pazzia; a Edipo che non si accorge di essere lui stesso la sciagura di Tebe; a Teseo che deve inventarsi un espediente per condurre la Grecia fuori dal labirinto; ad Achille che anziché vivacchiare preferisce morire giovane nell’eroico assedio referendario; a Giasone che vuole reimpadronirsi del vello d’oro del capitalismo; al tracotante Icaro che perde le ali per aver troppo alzato la posta dei negoziati; a Tantalo punito per aver barato sui conti pubblici, condannato a tendere invano le mani verso gli alberi rigogliosi del credito; ad Apelle figlio di Apollo che fece una palla di pelle di pollo (va bene, questa non c’era, l’ho aggiunta io). C’è poi chi ricorda che Tsipras non è Zeus, al limite un mortale di talento, e soprattutto che non è Re Mida. Per ciascuno di questi dèi, eroi e titani assortiti si trovano, a frugar bene nei giornali italiani ed europei, decine di articoli. Un colossale pride di antichi compulsatori del Rocci e del Montanari, o male che vada di fan dei cartoni animati di Pollon. Leggi il seguito di questo post »
Come i garantisti divennero pelosi
“E oggi pelo vi vuol, pelo e non pelle, per far fortuna e innamorar le belle” si legge negli Animali parlanti di Giambattista Casti, poema satirico del primo ottocento. Gadda attribuiva il successo di Ugo Foscolo con le donne all’“irsuto petto” e ai basettoni, e ancora ai tempi di Sean Connery, di Burt Reynolds e di altri divi moquettati la regola conservava un suo valore. Ma in quest’epoca di polli spennati e di riti cruenti come la fotodepilazione laser la villosità pare caduta in disgrazia, e ormai riguarda solo il fenotipo di una sottospecie umana a rischio di estinzione: i garantisti. Non se ne può più. Alla fine anche Rodotà ha ceduto al pigro riflesso condizionato di associare quel sostantivo, garantismo, a quell’aggettivo, peloso. Per l’esattezza ha detto che Renzi è un garantista peloso da prima repubblica, che oltretutto è una ricostruzione darwinianamente inesatta. Quand’è che i garantisti si trasformarono in wookie, le enormi pelosissime creature di Guerre stellari? Alcuni fanno risalire la formula a Massimo D’Alema, che prese a usarla a metà degli anni Novanta e che nel 1997, ai tempi della Bicamerale, annunciò la necessità di “opporre al garantismo peloso della destra un garantismo diverso”, che si supponeva glabro. Ma l’espressione è più antica, e ha una data di nascita precisa: 21 marzo 1993, equinozio di primavera, quando Giorgio Bocca sull’Espresso la usò contro Alfredo Biondi. Di lì a poco Bocca ripeté l’accusa, e poi ancora, finché Biondi s’incazzò, lo querelò e a un certo punto gli tirò pure una risposta memorabile: “Che io sia peloso l’avrà saputo da sua sorella”. Cominciava così ad alimentarsi l’equivoco sui sensi letterali o figurati della pelosità. La formula diventò un ritornello negli articoli di Bocca di quei mesi, che letti oggi ricordano il pavimento di un barbiere, e il giornalista s’inventò anche la fattispecie del garantismo “peloso e doloso”. Facciamo caso alle date, però: il 21 marzo 1993 cade esattamente tra la bocciatura del decreto Conso e il referendum per il maggioritario. La villosità dei garantisti è dunque un prodotto della seconda repubblica, non della prima come vuole Rodotà. Leggi il seguito di questo post »
Il buon selvaggio televisivo
Quando pensano a Matteo Renzi non gli viene in mente nulla. O meglio, gli vengono in mente frasi come questa di Rino Genovese, filosofo: “Matteo Renzi è il nulla. Lo dico con cognizione di causa per averlo incontrato una volta, ormai diversi anni fa, alla presentazione fiorentina di un libro”. L’articolo, scritto a commento delle primarie del 2013, si è guadagnato un posto nel mio sciocchezzaio per molte ragioni. Per la comicità (involontaria) che si sprigiona dall’attrito tra la perentorietà dell’affermazione e l’irrisorietà del pretesto; per la boria senza limiti; perché mi ha fatto venire i capelli bianchi alla prospettiva di vent’anni di antirenzismo come copia iperrealista dell’antiberlusconismo; perché questo trattar Renzi da tabula rasa mi ha rivelato con una chiarezza senza precedenti una posa che di precedenti ne ha molti, e uno più ferale degli altri, la “Fenomenologia di Mike Bongiorno” di Umberto Eco. Leggi il seguito di questo post »
Salvatore Settis e la sua orchestra
Non è impresa da poco metter su un’orchestra, specie se si ha l’ambizione di fare grande musica. E la Costituzione è come un bellissimo spartito, lo disse Giuseppe Tesauro quando fu eletto presidente della Consulta. Rimpiango quindi di non aver fatto studi musicali, perché in queste cose non ci s’improvvisa, non è materia da strimpellatori. Pensate solo alla perizia che ci vuole per raggiungere il delicato equilibrio della sezione degli ottoni, così da coprire tutta l’estensione delle voci, dalle più squillanti alle più gravi e pompose: il corno, la tromba, il trombone, il basso tuba, il Salvatore Settis. Non è impresa da poco, ma esiste un’altra via? “La Costituzione spartito di libertà” era il titolo di un incontro musicale organizzato l’anno scorso dal gruppo di Don Ciotti, con il cantautore Gianmaria Testa e con Caselli (Gian Carlo, non Caterina). Ma la Carta non è musica leggera. I temerari che hanno tentato di metterla in canzonetta – da Claudio Baglioni, che gorgheggiò sui principi fondamentali e donò il brano a Repubblica, con tanto di lettera dedicatoria a Ezio Mauro, a Shel Shapiro, che riuscì a far suonare i primi undici articoli più o meno come Stasera mi butto di Rocky Roberts – non hanno avuto fortuna; né è riuscito a far di meglio Gherardo Colombo, animatore dell’ala giovanile del conservatorio costituzionale, tra la musica balcanica dei concertoni del primo maggio e gli spettacoli con il rapper Piotta. Leggi il seguito di questo post »
La Grande Rimozione. Sulla damnatio dei socialisti
L’arte del fotoritocco totalitario ha prodotto tanti di quei capolavori che si dovrebbe farne un museo. Nell’ala “Surrealismo” si potrebbero esporre le mani di Karl Radek, che continuavano a dimenarsi, staccate dal corpo del loro proprietario, nel filmato di un congresso della Terza Internazionale: la censura di Stalin aveva tentato di cancellare ogni traccia dell’ex dirigente bolscevico, dopo le Grandi purghe, ma era stata tradita da quel dettaglio rivelatore (lo notò, e ne scrisse, Franco Fortini). L’ala “Realismo magico” potrebbe invece inaugurarsi con una sequenza di fotografie della Rivoluzione cubana, tre versioni successive della stessa immagine. Nella prima, Fidel Castro parla animatamente accanto a Carlos Franqui e ad Enrique Mendoza. Nella seconda, Franqui è scomparso; nella terza, non c’è più neppure Mendoza, e tutto quel che resta è un rincoglionito a bocca aperta che gesticola da solo davanti a un muro. Forse facevano prima a cestinarla. Leggi il seguito di questo post »
…E poi non ne rimase nessuno. L’estinzione dei garantisti
Con un acquario si può fare una zuppa di pesce, più difficile è trasformare una zuppa di pesce in un acquario. La battuta che circolava ai tempi del crollo del Muro, a sottolineare l’irriversibilità dei disastri fatti dal comunismo, si presta bene anche ai danni di un ventennio di intossicazione forcaiola. Da più parti si è detto, in questi giorni, che il nuovo gruppo dirigente renziano deve dotarsi di una cultura garantista, e che tra le intemperanze corporative dell’Anm e le inchieste sul Pd emiliano tutti i nodi del rapporto politica-giustizia stanno venendo al pettine. Era ora, verrebbe da dire; se non fosse che, per citare Sciascia, manca il pettine. E se il pettine manca, è perché c’è chi si è messo d’impegno a staccarne uno dopo l’altro tutti i denti. La metafora che ricorre più spesso è un’altra, quella della “mutazione genetica”: la sinistra avrebbe smarrito l’ispirazione garantista trasformandosi in una cinghia di trasmissione della magistratura associata, o in una tifoseria dei pubblici ministeri; dal che si deduce che per tornare dal signor Hyde al dottor Jekyll basta aspettare che la pozione magica cessi il suo effetto. Ma è una metafora inesatta, compiacente e segretamente revisionista. Leggi il seguito di questo post »
Tintinnio di bilance
L’iconografia giudiziaria è disseminata di tranelli. Scriveva Francesco Carnelutti (Le miserie del processo penale, 1957) che anche le manette sono un emblema del diritto; “forse, a pensarci, il più autentico dei suoi emblemi, ancora più espressivo della bilancia e della spada. Bisogna che il diritto ci leghi le mani”. La belva aggiogata torna allora ad apparirci uomo, risvegliando la nostra compassione. Dubito che il grande giurista sarebbe riuscito a ripetere senza tremare queste parole, pur così ispirate ed evangeliche, davanti alle miserie delle nostre cronache, al deputato grillino che sorride con ferocia ebete mimando i ferri ai polsi, ai sadomasochisti giudiziari del Fatto Quotidiano che per la retata dell’Expo tornano a mettere le manette in prima pagina (le stesse che avevano usato, cinque anni fa, per la bocciatura del lodo Alfano: neppure si sono sprecati a disegnarne di nuove) sotto quel titolo francamente ributtante, “Vanno a prenderli uno per uno”. La nausea è tale che quanti hanno ancora a cuore i principi elementari della civiltà giuridica – ormai un “piccolo resto”, per dirla biblicamente – devono pescare dal mobiletto dei farmaci la pagina in cui Sciascia avvertiva che se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette saremmo perduti senza rimedio. Per un istante il discrimine torna ad apparire nitido: di là le manette, di qua la bilancia; di là la muta ringhiosa dei linciatori, di qua la sobria invocazione della legge uguale per tutti. Ma l’iconografia giudiziaria è insidiosa come un cattivo sogno, le linee si annebbiano, e ti ritrovi a pensare, trasalendo, che oggi dobbiamo aver paura soprattutto della bilancia. Leggi il seguito di questo post »
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